Cy Twombly, Senza titolo (Roma [Il muro]), (1961),
olio, smalti, graffiti e carboncino su tela, 200x241 cm
GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino.
Foto: Studio fotografico Gonella
GIORGIO VASTA
racconta Senza titolo (Roma [Il Muro]) di Cy Twombly
GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
È il 1961. Cy Twombly si è trasferito a Roma dove nei pressi di Campo de’ Fiori ha allestito il suo studio. Presumibilmente da lì può osservare il via vai del mercato, sicuramente sente le voci sbriciolate di chi vende e di chi compra. Sente cioè il linguaggio in quella sua vita intermedia che si determina quando i singoli fonemi non si sono ancora strutturati in parole, quando le parole non si sono ancora ordinate in frasi, quando le frasi non hanno ancora formato un discorso: quando cioè ogni sillaba è insieme suono e abbaglio.
Quello che Twombly ascolta dal suo studio è il linguaggio nella forma del dormiveglia; come se una superficie smerigliata, impedendone una percezione nitida, lo proteggesse e lo rivelasse nella sua sostanza originaria.
Il linguaggio che sta appena dischiudendosi al senso sparpagliando intorno frammenti di guscio. Il linguaggio come potrebbe ascoltarlo un neonato. Il linguaggio da piccolo.
Da quattro anni, a due passi da Campo de’ Fiori, Twombly ascolta il linguaggio neonato, e lo dipinge.
In Senza titolo (Roma [Il muro]) la tela è un orecchio, una superficie adesiva che intercetta e trattiene lo scompiglio delle voci. Uno spazio in cui si compie un passaggio di stato che rende l’acustico visibile: delle voci percepiamo la materia.
In alto a destra c’è un grumo rosso che sembra ceralacca (il sigillo di una tela-busta che contiene non tanto le parole quanto i suoi materiali di costruzione, il prelinguistico al lavoro), più in basso macchie giallo senape a sbaffo a granchio e a ghirigoro e poi gore rosa, virgole brune o rossastre, solcature grigie e sottili della superficie – altri segni che sembrano collaudi, lallazioni grafiche, arcipelaghi di corpuscoli, un brulicare sparso di particelle germinali.
Twombly si ferma, ascolta: l’aria, intorno, è impregnata di linguaggio. Torna sulla tela, lascia sgocciolare un colore, prende il carboncino e tira fuori una matassa di linee. Fa un passo indietro, guarda: ogni segno sulla tela è aggrovigliato o sgrovigliato; è in tensione, è in contorsione. Perché i materiali che formano il linguaggio sono fatti di riverbero, di tremore, di invisibili tumulti, di una febbre che scuote le forme; sono materiali filamentosi, hanno code flagellanti che vibrano veloci.
Ancora un passo in avanti, un movimento della mano e quando la traiettoria si conclude e il braccio torna al corpo, sulla tela – a destra in basso, in un corsivo veloce – si materializza la parola Roma, talmente sottile da somigliare a un bisbiglio.
Twombly allora si scosta, osserva la voce portata alla luce.
Poi si stropiccia gli occhi e dentro gli occhi esplodono i fosfeni.